
Vivere per il futuro con David Bowie
David Bowie è stato molto più di un musicista: è stato un laboratorio vivente di futuro. Nel corso della sua carriera ha incarnato il cambiamento in modo radicale, trasformandosi a ogni passo e rifiutando l’idea stessa di restare identico a sé stesso. Ziggy Stardust, il Duca Bianco, l’alieno, il clown malinconico: ogni volta che una maschera sembrava consolidata, Bowie la abbandonava, come a ricordarci che l’identità non è un destino, ma un processo in continuo divenire.
Il suo insegnamento più profondo non riguarda solo l’arte o la musica, ma il modo di stare al mondo. Bowie ci ha mostrato che il futuro non è un tempo da attendere passivamente, ma una direzione da costruire con scelte coraggiose e spesso scomode. Significa lasciare andare ciò che conosciamo — anche quando ci garantisce riconoscimento e sicurezza — per aprirci a ciò che non è ancora scritto.
Personalmente, ho sempre trovato in lui una bussola nei momenti di incertezza. Nei suoi dischi non c’è mai la consolazione del presente, ma la spinta a guardare oltre. Ogni volta che lo ascolto, mi sembra che dica: «Non accontentarti, non restare fermo, rischia di cambiare». In questo sta la sua lezione più umana: vivere per il futuro vuol dire accettare che non esiste una forma definitiva di noi stessi, ma soltanto metamorfosi.
Il suo lascito, oggi, va ben oltre l’estetica. In un’epoca in cui tutto sembra spingerci verso la ripetizione e la rassicurazione, Bowie resta un simbolo di libertà creativa e personale. La sua vita è stata una prova che il futuro non è mai un traguardo, ma un movimento. Non un luogo lontano, ma una possibilità che si rinnova ogni giorno.
Per questo, ancora oggi, Bowie continua a indicarci una direzione. Non quella del passato, non quella della nostalgia, ma quella del rischio e della trasformazione. È una chiamata a credere che il futuro non arrivi da solo: siamo noi a doverlo immaginare, e poi a viverlo.
E forse è proprio questo che rende Bowie eterno: il suo non essere mai stato davvero del suo tempo, ma sempre un passo più avanti, pronto a ricordarci che il futuro comincia adesso.

Scott Walker: l’ombra che illumina la musica
Ci sono artisti che non hanno mai cercato il centro del palco, eppure continuano a proiettare un’ombra lunga, capace di influenzare intere generazioni. Scott Walker è uno di questi. La sua parabola è unica: partito come idolo pop con i Walker Brothers negli anni ’60, con canzoni che scalavano le classifiche inglesi, si è progressivamente spogliato della patina commerciale per inseguire un percorso artistico radicale, coraggioso, spesso incomprensibile per il grande pubblico, ma imprescindibile per chiunque abbia provato a dare un senso nuovo alla musica.
I suoi primi dischi solisti – Scott, Scott 2, Scott 3 e Scott 4 – sono un universo in cui la voce baritonale incontra orchestrazioni sontuose e un gusto letterario fuori dal comune. Jacques Brel non sarebbe mai entrato con tanta forza nella cultura popolare se non ci fosse stato Walker a tradurne il veleno poetico in un inglese cupo e magnetico. Scott 4, in particolare, resta uno degli album più belli e sottovalutati della storia: un’opera densa di lirismo, che già faceva intravedere il passo successivo, più visionario e oscuro.
Dagli anni ’80 in poi, Walker smette di cercare compromessi. Con dischi come Climate of Hunter, Tilt o The Drift abbatte le strutture tradizionali della canzone, trasformando la musica in un’esperienza fisica, quasi teatrale. Suoni metallici, percussioni che sembrano colpi di scure, atmosfere da incubo che convivono con momenti di pura, straniante bellezza. Non più intrattenimento, ma arte pura, dura, spigolosa.
Il suo influsso è ovunque: nei Depeche Mode più cupi, nei Radiohead di Kid A, nei National, in David Bowie che più volte lo ha citato come maestro. Persino artisti apparentemente lontani – dal post-punk all’avant-pop – riconoscono in Walker una fonte inesauribile di coraggio creativo.
Scott Walker ci ha lasciato nel 2019, ma la sua eredità continua a vibrare sotterranea. Non è mai stato una rockstar nel senso classico: non cercava l’applauso, ma lo smarrimento. È stato la dimostrazione vivente che la musica può essere rifugio, specchio, abisso.
Personalmente, ogni volta che torno ad ascoltare Farmer in the City mi sembra di entrare in una stanza senza finestre, illuminata solo dalla sua voce: un luogo che mette a disagio, ma da cui non vorresti più uscire. Forse questo era il suo vero dono: obbligarci a guardare nell’ombra, per scoprire che lì dentro, a volte, la luce è più intensa.

David Sylvian: l’arte del dissolversi
Ci sono artisti che si misurano con il rumore del mondo, e altri che preferiscono sottrarsi a esso, come se la loro missione fosse ascoltare ciò che resta quando il clamore si spegne. David Sylvian appartiene a questa seconda, rarissima specie. È un musicista che ha scelto la via del silenzio come forma espressiva, l’ombra come materia, la sottrazione come linguaggio.
Nato come idolo estetico nella parabola dei Japan, all’inizio non sembrava destinato a questo destino. Il trucco perfetto, la posa elegante, il magnetismo glaciale lo collocavano nel pantheon della new wave anni Settanta. Ma dietro quell’immagine levigata si intuiva già una crepa: la voce baritonale, calda e grave, non era fatta per il glamour. Era un richiamo sotterraneo, una vibrazione che suggeriva intimità, vulnerabilità, profondità.
Con il tempo, Sylvian ha progressivamente smesso di costruire maschere e ha cominciato a demolirle. Brilliant Trees non fu soltanto il suo primo album solista: fu un manifesto. Le canzoni si aprivano come paesaggi interiori, dove il pop era solo la superficie di un lago in cui scorrevano correnti jazz, ambient, world. Collaborazioni con Czukay, Fripp, Hassell, Sakamoto non erano orpelli, ma fili tesi verso un altrove sonoro. Sylvian non cercava una patria musicale: abitava nel confine, nella soglia, nello spazio tra i generi.
Ogni suo disco è un frammento di diario spirituale. In Gone to Earth la contemplazione si dilata, in Secrets of the Beehivela malinconia diventa poesia sussurrata. Più avanti, in Dead Bees on a Cake, la dimensione mistica si unisce a una sensualità terrena, creando una tensione unica, quasi un ossimoro. L’uomo che era stato icona new romantic si era trasformato in un pellegrino del suono, pronto a smarrirsi per ritrovarsi.
Poi, il gesto più radicale: Blemish e Manafon. Qui la forma canzone si sgretola, i frammenti di voce si muovono tra improvvisazioni strumentali essenziali, come se la musica fosse ridotta all’osso per lasciar parlare il vuoto. È un’arte che sfida chi ascolta: non concede appigli, non consola, non intrattiene. È un atto di verità, quasi crudele nella sua purezza.
Sylvian ha fatto della sparizione il suo linguaggio definitivo. Non solo nei suoni, ma nella vita stessa: poche apparizioni, poche interviste, un profilo che scivola nell’anonimato. L’assenza come dichiarazione d’intenti, il silenzio come ultimo stadio della musica.
Ascoltare Sylvian oggi significa attraversare stanze interiori più che brani musicali. Significa accettare che l’arte non debba sempre alzare la voce, che esista una bellezza sottile, fragile, che vive negli interstizi. È come entrare in un tempio vuoto: non c’è immagine, non c’è rito, ma c’è un respiro che ci attraversa e ci ricorda che siamo vivi.
David Sylvian non ha mai voluto essere un’icona. Eppure lo è diventato: l’icona di ciò che resta quando si smette di cercare la luce dei riflettori. Un artista che ci insegna che, a volte, per dire la verità più profonda, bisogna avere il coraggio di scomparire.